Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.

le foto sono di Gaia Menchicchi

Un bar che è esso stesso diventato un classico: più del banco a ferro di cavallo, trucco rifatto nel 2016, quando fu riportato letteralmente al centro del locale (nel frattempo allargatosi, avendo acquisito nel 2005 gli spazi che furono della rivista di moda Pig Magazine). Più del Gin Zen, cocktail nato addirittura ancora prima, nel ’98 quando Nono calcava la pedana dell’oggi defunto Indiana Post: precursore della smania di Moscow Mule dell’ultimo decennio, non avrebbe neanche più bisogno di essere in carta tanto è noto, con quella moneta di zenzero pestata sul momento e la cannuccia ecosostenibile che sbuca dal ghiaccio tritato. Più classico della divisa che i bartender vestono ogni sera, un tempo mimetica (presa dal negozio di militaria sull’altro lato del Naviglio), poi a righe da gondoliere/galeotto, oppure giacca bianca da medico.

Che poi vai a capire cosa vuol dire, classico: più forte del tempo? Rita ha saputo lasciarsi andare sulla corrente del nuovo millennio, assecondandone le paturnie e a modo suo dettando i ritmi di un momento ritrovato, come l’aperitivo, senza però scadere nel dozzinale: ai quintali di buffet senza senso, qui si è sempre preferito il poco ma buono. Nono ne ha viste di ogni e ovunque, partito dalla sua Varese a varcare gli oceani sulle navi da crociera: tornato a Milano portò in borsa il culto degli ingredienti freschi, degli agrumi spremuti ogni giorno e delle miscele fatte in casa, ben prima che divenissero cosa tutto sommato comune nel panorama del bar. Ancora oggi, Rita conta novanta preparazioni, gestite dal team capitanato da Massimo Borroni; fino a prima delle chiusure per pandemia, tra bar e cucina si alternavano tredici persone. Sono passate Olimpiadi (cinque, Federica Pellegrini vinse il primo argento nel 2004; Roger Federer il suo primo Wimbledon l’anno prima, entrambi si sono ritirati), mode (la vita bassa, il giaccone con pelliccia, il ritorno della zampa), videofonini (la Tre lanciò l’offerta nel 2003), trilli (MSN ha smesso di essere sviluppato nel 2012), governi (manco a contarli): il Rita è comunque rimasto là.

Forse classico vuol dire design, aspetto inconfondibile, identità? Un’impronta statunitense con anima tutta italiana, che all’idea di cocktail bar classico come non ce n’erano, contrappone un’immagine a tinte azzurre: “All’epoca moltissime insegne si chiamavano Cafè, noi volevamo un nome evocativo, vintage ma fresco, sull’esempio del mitico Gilda di Roma. Gilda era un personaggio di Rita Hayworth (film omonimo del 1946, con anche il mitico Glenn Ford), noi abbiamo preso solo il nome e l’abbiamo fatto nostro, contornandolo con un logo ovale simile a quello della Vespa, e usando lo stesso font dei motoscafi Riva”. E a passarci, in ogni caso, una vera insegna non c’è: “Costava troppo, e alla fine è andata bene così”. È andata bene davvero: sempre un metro avanti, con le drink list signature avviate in tempi non sospetti, una cucina che da una vita va anticipando la necessità del bar food di qualità, un aspetto che sembra fermo negli anni eppure non stanca mai.

Rita è stato finora una fucina di bere semplice e universale ritualità, di comunicazione fresca e convivialità senza impegno; soprattutto, una palestra professionale per un buon paio di generazioni di bartender. Chiara Beretta (prima Campari Bartender of the Year in assoluto, oggi in Fine Spirits), Leonardo Todisco (oggi volto di Engine), Niccolò Caramiello (Norah), giusto per citarne alcuni: Nono tiene il timone con piglio fermo ma dinamico, riuscendo a contaminare i più giovani con il suo sapere vecchia scuola e lasciando loro la giusta mobilità per garantire al Rita una modernità continua, nel suo essere sempre lo stesso, in qualche modo. E scavallati i cinquanta da qualche anno, non ha alcuna intenzione di scendere dal bancone: “Due sere in casa e impazzisco, mia moglie lo sa”.

Classico, forse, perché è ancora vissuto come il bar di una volta dallo stesso Nono e dai suoi ragazzi: luogo di rilascio, di camminamento sul filo di una tensione che va sciogliendosi a ogni sorso in più; lontano dalle elucubrazioni della miscelazione contemporanea, dalle rincorse ai vuoti riconoscimenti da strilloni, dalle seghe mentali di indirizzi che per una storia su Instagram in più sacrificano l’ospitalità vera. Al legno di questo banco (strepitose la bottigliera a muro e l’illuminazione tutta) ci si siede per vivere e non per dimostrare d’esserci stati, e il merito di questa genuinità quasi scomparsa è proprio di chi ha saputo concepirla e difenderla. Peraltro guardando oltre; dal 2019 è aperto il Rita’s Tiki Room, costola tropicale esattamente dirimpetto, che ha di fatto aperto uno spiraglio di offerta prima inesistente a Milano, grazie agli sforzi di Chiara Buzzi, socia di Edoardo Nono (nel 2022 è uscito il socio storico Andrea Chiaruttini), del capo bartender Alessandro D’Alessio e del direttore della miscelazione Andrea Arcaini.

Classico perché tra gli ultimi baluardi che nel bar vedono un polo di cultura: non a caso il tema dei festeggiamenti per il ventennale, conclusi la scorsa settimana dopo un giubileo durato un mese, durante il quale Rita è stato palcoscenico di masterclass, guest shift, incontri e ritorni. L’elettricità, lo scambio, la ricchezza di una dimensione come quella del bar, sono grandezze che trascendono il semplice cocktail: lo si ripete spesso, ma è solo trascorrendo qualche ora in un posto come questo, che si può davvero comprendere. Sono passato a una sola di queste sere, come a chiudere un cerchio: a fare da bere c’era il suddetto Leonardo Todisco, tra i vari ex bartender che per una notte tornavano dietro il banco che lo aveva formati. Leonardo (il cui account Spotify vi salverà la vita) fu il motivo della mia prima volta al Rita, per un’intervista dopo un suo successo in una competizione incentrata sul sake. Era prima del servizio, e in qualche modo mi sembrava di avvertire un’energia vibrante, il fremito di chi proprio non vedeva l’ora di mettersi ad accogliere. Sembra un’eternità fa, era invece il 2018: eppure nel frattempo è successo letteralmente di tutto. E indovinate cosa è rimasto com’era, per fortuna. Un classico.

Carlo

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?