Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

A bartender, osti e proprietari di locali auguro ulteriore crescita, maggiore competenza, più sorrisi e una generosa dose, come piace a dire a voi, di coraggio. Che si tratti di grandi città o cittadine di provincia (il vincitore dell’ultima Diageo World Class, Vincenzo Pagliara, è uno dei frontmen di Laboratorio Folkloristico a Pomigliano d’Arco (NA)), il movimento bar italiano sta oggettivamente conoscendo un momento di grande ribollire. Oltre all’effetto che può fare l’avere quattro indirizzi nella lista dei primi cinquanta bar al mondo, il fermento si evince dalla sempre maggiore cura per dettagli fino a poco fa ignorati (ghiaccio, bicchieri), un progressivo affinamento dei menu, una maggiore rete con professionisti internazionali, e così via. E allora, prima di tutto, che sia un anno di conferme e di ancora nuove soddisfazioni.

Che sia anche un anno di ritrovato buonumore: ricordatevi che quello della miscelazione, e della notte in generale, è un mondo balordo e stupendo, nel quale ben più che altrove l’energia di chi ospita investe chi è ospitato. È vero che al bar, e finalmente lo si sta comprendendo, non si va per sfondarsi d’alcool, ma nemmeno per assistere a una funzione religiosa celebrata da santoni in papillon e baffi all’insù. Quindi sorridete, orsù, che anche se in ambienti un po’ più pettinati avete comunque in mano le redini dello star bene dei vostri ospiti, e fate il lavoro più bello del mondo. (Per un esempio egregio di commistione tra luogo d’alto profilo e ospitalità alla mano, passate magari al Doping Club, in foto, dove Alberto Corvi e il suo gruppo fanno un signor lavoro).

Vi auguro un anno con un bar che sia sempre più legato al passato, dal quale non può prescindere, ma che inserisca via via quello che l’oggi sta rendendo chiaro (e brillante). Quindi più classici, che vogliono dire più studio: sono reperibili centinaia di volumi, ricettari, raccolte che raccontano di cocktail a volte vecchi di un secolo. Sono autentiche miniere, cui basterebbe smussare i lati per renderli attualissimi e godibili; ora non dico di dover rispolverare bombe atomiche come l’Aberfoyle della Bartender’s Bible del compianto Gaz Regan (vodka e Drambuie, sudori freddi), ma provare a guardare oltre gli imprescindibili IBA (che pure dovremmo sapere a memoria) potrebbe portare grosse soddisfazioni.

Quando rompo le scatole a Davidino Castelli, oggi al Pinch, chiedendogli un drink della buonanotte, lui indovina ricette come Baton Rouge, Journalist Cocktail e l’ultima volta parlavamo del Fanciulli: “Sa di vecchio”, mi prende sempre in giro. Ecco, se da quel sapore riuscirete a tirare fuori qualcosa di contemporaneo, state sicuri che avrete vinto voi. Il suddetto Regan, in foto, inoltre, in una meravigliosa finta lettera scritta per Tales of the Cocktail nel 2016, parafrasò il poeta Maya Angelou scrivendo che le persone dimenticheranno cosa hai detto, dimenticheranno cosa hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire. Magari teniamolo a mente, nel 2023.

In nome dell’oggi, dicevamo, vi auguro un anno con più proposte da mangiare, al bar. Che pur sembrando un paradosso, sono in realtà una naturale risposta all’evolversi delle nostre abitudini. Mentre si era a chiacchierare durante l’ultimo Festival di Gastronomika, la bravissima Chiara Beretta (prima Campari Bartender of the Year, oggi in Fine Spirits) ben commentava come abbia molto più senso un cocktail bar con cucina, rispetto a un ristorante con cocktail bar. E per quanto l’uso italiano preveda molto, troppo spesso l’idea di spostarsi da un luogo all’altro per aperitivo, cena e poi prosieguo, una formula che invece racchiuda tutte queste possibilità potrebbe rivelarsi ben vincente, e per fortuna cominciano a vedersi proposte di assoluto livello in merito (Baratie è stata tra le più impressionanti dell’anno, valido anche solo per due parole con quel personaggio del cuoco/oste Andrea Cicu). Non necessariamente interi menu, piuttosto una selezione di bocconi di qualità senza fronzoli, che siano confortevoli e al tempo stesso intriganti, non necessitino di spiegazioni da università, insomma, rispecchino l’energia del bar. E possibilmente, nel rispetto sacrosanto dei contratti di lavoro, con la cucina che lavori più a lungo possibile (mangiare a tarda notte, quella volta che capita, cibo da bar ben fatto, è tra i piaceri della vita).

Vi auguro di tornare a prendere l’ospitalità sul serio, di smettere di pensare che sia una cosa da tutti e che non richieda dedizione, sacrificio, studio: troppi, soprattutto ultimamente, sono stati gli imprenditori improvvisati, che per cambiare strada hanno pensato di poter fare soldi facili sulla pelle di questo settore. Va bene provarci, ovviamente, ma i risultati si ottengono con l’impegno, non certo solo con un nome da spendere, con gli amici di amici, con le foto di un paio di influencer. Alla lunga i nodi vengono al pettine, e senza una squadra di professionisti o una formazione adatta, è facile implodere. Con questo non dico che non si possa riuscire; di certo, però, non si può farcela senza la giusta serietà.

Ai bevitori, invece, auguro di continuare a rendersi conto del valore dell’universo mistico cui accedono ogni sera, attraversando la soglia di un bar. L’ecosistema travolgente che si percepisce in un bar a pieno ritmo dipende per ovvi motivi dagli ospiti che lo popolano. È in realtà un circolo virtuoso, che a bartender competenti e osti dai modi garbati fa corrispondere avventori di caratura simile, il cui contributo va di grandissima lunga oltre quello meramente economico (fondamentale, va da sé). Ricordatevi, fortunati bevitori, che la dedizione di un bartender o di un cameriere va rispettata, onorata quasi, soprattutto per chi è habitué e instaura un rapporto stabile con chi è dall’altro lato del banco: è bene aiutare porgendo un bicchiere vuoto, ma non invadere lo spazio professionale ripulendo l’intero bancone. Va benissimo chiedere di assaggiare nuovi drink o nuovi prodotti, ma al venerdì sera nel pieno del caos magari non pretendete per forza un Ramos Gin Fizz. Rispettate le poche regole della casa, non rendetevi fastidiosi, non eccedete. Lasciate la mancia, e se avete uno sconto, lasciatela doppia.

E infine ai comunicatori del bar, o ai presunti tali: vi auguro di trovare la forza di studiare sempre di più, perché ci serve eccome. Vi auguro di rifuggire una volta per tutta espressioni come “questo bar propone cocktail ben fatti e super particolari”, di descrivere qualcosa in più di interni caldi e accoglienti. Di ricordare che non siamo nessuno per giudicare cosa è buono o meno, che la nostra posizione dovrebbe portarci a riconoscere come alcune cose potrebbero essere perfette anche se non ci piacciono. Vi, ci auguro di tenere a mente che la prima impressione è molto spesso quella giusta, ma una volta sola non è mai abbastanza, per poter parlare davvero a fondo di un luogo. E più di ogni cosa, se davvero vogliamo definirci comunicatori, mi auguro si possa parlare la nostra lingua, correttamente: texture, vibe, e migliaia di altri termini hanno corrispettivi (peraltro di una musicalità meravigliosa) in italiano, magari usiamoli. Obiettivo per il 2024: comprendere il corretto utilizzo dell’espressione piuttosto che.

Carlo

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.