Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

A questa mentalità genericamente approssimativa, che per fortuna è comunque interrotta da realtà che invece si fanno un mazzo così per tenere altissimi gli standard fino all’ultimo secondo di servizio, prima di staccare la spina per un paio di settimane, si aggiunge un aspetto ben più romantico: quasi nessuno vuole sedere all’interno, figuriamoci al bancone, e si preferisce invece fare la rincorsa ai posti all’esterno, l’ormai leggendario dehors. Che peraltro merita una parentesi: dehors significa letteralmente fuori in francese. Quindi quanto si può voler bene ai giornalisti (se così vogliamo chiamarli) o uffici stampa che raccontano di dehors esterno (quindi un fuori fuori?), o addirittura di dehors interno quando c’è qualche cortiletto segreto da dover spingere sui social? È tutto meraviglioso.

Le sedute all’aperto sono ovviamente una manna per i locali che hanno la possibilità di disporne, per ragioni piuttosto intuibili (più spazio vuol dire più coperti che vogliono dire più incasso); ma comportano, oltre a un dispendio energetico ed eventualmente di salari (serve più personale) anche una gigantesca perdita di quella magia che rende il bar un ecosistema quasi impossibile da replicare in altri contesti socioeconomici. Si smarriscono le vibrazioni, i suoni, la dimensione quasi teatrale di un luogo che si limita così ad essere un distributore di bevande, a prescindere dalla qualità. Sarò io alla vecchia maniera, ma andare al bar per sedere a un tavolino in mezzo alla strada è forse l’ultimo dei miei desideri. (Disclaimer: ci sono ovviamente dei bar con spazio esterno strepitoso, che è parte integrante dell’esperienza, vedi LOM Dopolavoro, Mosso, il cortile estivo del Rita’s Tiki Room e così via, in foto in alto. Altri locali, senza sedute, hanno nell’area di fronte al loro ingresso, una sorta di zona sospesa che contribuisce a rendere unica una visita, come Lacerba e Unseen,in foto in basso).

Questa estate, nello specifico, ci ha già portato meravigliosi spunti di indubbio spessore culturale, dai quali il mondo del bar dovrebbe poter apprendere con enorme gioia. Il primo è lo stazzonato e poliglotta articoletto di Alain Elkann (pubblicato sul giornale di proprietà del figlio, l’Italia è un paese meraviglioso), nel quale il nostro descrive un viaggio in treno tra Roma e Foggia, e se la prende con i giovinastri che tra le altre cose vanno, e cito, “a beccare le ragazze nei night” (vi scongiuro, se qualcuno di voi ha mai detto o sentito la parola night negli ultimi trent’anni, mi scriva). Non scenderò in analisi di sorta, ma temo la questione mi abbia fatto venire in mente immagini da brividi legate al nostro settore.

Ovvero, l’enorme divario di visione e comprensione che c’è tra il nostro mondo e quello delle generazioni precedenti, ancor di più quelle agiate: le parole di Elkann appartengono a quella fascia di persone che al bar schioccano le dite per attirare l’attenzione del personale di sala, apostrofandolo come servitù e non come professionisti di servizio. Quelli che continuano a chiederci cosa vogliamo fare da grandi, una volta chiuso con il bar, o che raccontano di “aver fatto il barman anche io, per guadagnare qualcosa” (solo uomini, ovviamente), svilendo continuamente la nostra dedizione e i nostri investimenti. E mi stringo forte a chi lavorerà durante la stagione, quando il tasso di superbia degli avventori è storicamente ai limiti sostenibili. Per fortuna ci ha pensato quel genio di Stefano Raponi a dire la verità assoluta, e mi sono rasserenato.

Poi, la croccante e per nulla autoreferenziale querelle relativa alla (ri)apertura del Caffè Giacosa a Firenze. Il sempre ottimo Federico Bellanca, che con questo articolo ha scoperchiato un mezzo Pandora miscelato, mi ha anche concesso una apprezzabile riflessione sulla differenza tra Storia e opinione: la prima, che vede il Negroni nascere in un luogo specifico, certificato, comprovato e che non è il Giacosa, è incontrovertibile. La seconda, che autorizza a vedere il Giacosa come naturale evoluzione del Casoni, dove il Conte (a proposito: il Conte Negroni potrebbe in realtà non essere mai esistito, ma questa è un’altra storia) e Fosco Scarselli hanno dato vita al cocktail italiano che più italiano non si può, è per natura volatile è opinionabile.

Il grosso del problema, peraltro già discusso in altre pagine di diario, è quello che Federico ha segnalato in modo cristallino: chi racconta, qualsiasi cosa ma per certi versi il mondo del bar ancora di più, dovrebbe sempre quanto meno verificare fonti, veridicità, congruenze, e non limitarsi a cavalcare l’onda di un titolo che può essere ri-pubblicato tale e quale, perché garanzia di clic e condivisioni. E anche questo aspetto è parte integrante dell’approssimazione tutta italiana che purtroppo ammorba il nostro settore: abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori, ne parliamo a settembre, il caldo, le ferie, il Giacosa. Inverno, quando torni?

Carlo

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?

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Un classico

In un cassetto, da qualche parte, Edoardo Nono tiene ancora il primo scontrino mai battuto dalla cassa del Rita. Era il dicembre del 2002, vent’anni fa: la vita notturna del Naviglio Grande di Milano “finiva a Le Vigne”, un’osteria che oggi ancora resiste all’angolo con via Pasquale Paoli. Oltre, il nulla nebbioso della scighera: al posto del Rita aveva sede lo Zanza, luogo di perdizione che addirittura apriva a mezzanotte. Altri tempi, se è per questo altri colori e altre prospettive. Il Naviglio forse profumava ancora di indoli artistiche, squattrinate e semplici: era il regno di Alda Merini, scomparsa nel 2009, personificazione di quello che l’umanità dannata e sognante di questi luoghi deve essere stata, cui è stato dedicato uno spazio in via Magolfa e un ponte poco più in là.

All’inizio erano trentasei metri quadri, “un corridoio con più bottiglie che cristiani” come si legge scolpito nella prima recensione mai venuta fuori del Rita, su Zero. Erano gli albori degli albori (Facebook verrà lanciato in Italia nel 2004) della fame di visibilità social da cui adesso non si scappa più: anni in cui “era figo se ci si nascondeva, adesso è fondamentale essere presentissimi. Per anni siamo rimasti in silenzio senza apparire, adesso ci siamo adeguati”, peraltro alla grande, con una pagina Instagram che è uno specchio perfetto dell’irriverenza bonaria e graffiante di chi popola il banco del Rita. Da entrambi i lati, perché l’energia dei bartender si mescola a quella degli ospiti, alimentata negli anni dal potere di una proposta di tagliente semplicità.