Atene Maestra

“Se volete fare una cosa, fatela”. Che potrà sembrare un concetto di semplicità quasi triviale, ma Ago Perrone la dice con una pacatezza così decisa, da renderla un comandamento illuminante, facendola risuonare nelle pareti curve dello Stage D, il principale tra i cinque palchi dell’Athens Bar Show. Partito dai mille visitatori della prima edizione nel 2010, che contava appena nove espositori, quello che si è da poco concluso è stato l’Athens Bar Show con la maggiore affluenza di sempre (quattordicimila presenze), che ha inondato le viottole di Technopolis (Piraeus Street 100); fino agli anni Novanta, un impianto dedito al trattamento di gas e petrolio, oggi convertito in uno splendido polo fieristico.

Il comasco Perrone, Direttore della Miscelazione al Connaught Bar di Londra (miglior bar del mondo nel 2020 e 2021) era sul palco insieme a Lauren Mote (bartender, nome di spicco del brand di tequila Patron e autrice di A Bartender’s Guide to the World) e Monica Berg, personaggio più influente del mondo bar negli ultimi due anni secondo Drinks International, Direttrice Creativa di Campari Academy e co-proprietaria, insieme ad Alex Kratena, del visionario Tayer+Elementary di Londra (al secondo posto nella classifica dei World’s 50 Best Bars 2022). Tre autentici colossi del settore, riuniti di fronte allo stesso leggío per discutere l’importanza del ruolo dei mentori, quali essi stessi sono, in un panorama così variopinto, instabile e profondo come quello dell’ospitalità miscelata.

L’Athens Bar Show è infatti riconosciuto come l’appuntamento di settore più orientato alla formazione, a differenza di altri importanti congressi come il Bar Convent di Berlino, il Bar Convent di Brooklyn, il Bar Show di Roma, diversamente incentrati sul lato commerciale o più diretti alla figura del bartender in senso stretto. Dozzine di seminari gocciolanti talento ed esperienza erano a disposizione dei visitatori, e ciascuno copriva un aspetto diverso dell’industria da bere, che si trattasse di sostenibilità, tecnica, storia, prodotti, moda. E questo è forse l’aspetto più complesso da raccontare per bene, sia ai baristi alle prime armi, sia soprattutto a una platea che magari soltanto sfiora il bar da consumatrice (per fortuna, perché altrimenti staremmo a parlare del niente) e non ha contezza di cosa si nasconda dietro la gestualità ritmica di chi è lì a fare da bere.

L’ospitalità, ancora di più quella al bar, è forse l’unico settore professionale italiano in cui educazione e formazione non sono contemplati dal pubblico generale. L’idea di una fiera che funga da corso di aggiornamento per i bartender viene salutata quasi con un sorriso da chi apprende di questa possibilità per la prima volta, perché ancora è dilagante la concezione del bar (o del ristorante, soprattutto la sala) come tappa temporanea, e non come potenzialità di carriera. La maggior parte dell’utenza, in un paese con la terza età media più alta del mondo dopo Giappone e Germania (escludendo buenos retiros come Monaco e Isole Vergini), è tristemente artigliata alla figura del garzone di bottega, che come ripiego lava bicchieri e porta piatti, e ancora molto spesso guarda a camerieri e baristi dall’alto in basso. Ancora, e non è uno scherzo, si vedono ospiti richiamare l’attenzione dei camerieri schioccando le dita (vergogna), figurarsi quindi concepire che la professionalità di chi miscela è frutto di studio e sacrificio, al pari di qualsiasi altra attività.

Mentre continuava a raccontare di sé e della sua profonda esperienza, Perrone indicava sediolini dell’auditorium occupati da quei personaggi che a loro volta hanno influenzato il suo lavoro, come Nick Strangeway, una delle pietre angolari su cui Ago ha costruito il suo cammino, fino al premio di Industry Icon conseguito durante la cerimonia degli ultimi World’s 50 Best Bars, a Barcellona in Ottobre. Uno dei professionisti più apprezzati di sempre, era ancora là a fare un mezzo inchino di fronte a chi gli aveva trasmesso sapere, passione, idee. La dedizione al proprio lavoro si vede anche dal riconoscere e celebrare le personalità che ne hanno forgiato l’evoluzione; e sia detto, si vedeva anche in quello stesso pubblico che per tre quarti era composto di bartender, greci e non, per larghissimi tratti presenti a proprie spese, e in ogni caso disposta a (non) dormire un paio d’ore pur di esserci: che differenza c’è tra questo e la frequentazione di un corso universitario di qualsiasi facoltà, con gli stessi sacrifici?

La figura del mentore, che Lauren Mote scandiva con l’acronimo Method, Ego, Necessity, Time, Optimization, Responsibility (potremmo definire auto-esplicativo oltre ogni modo) è individuabile ovunque: “Sta al mentore comprendere le necessità dell’allievo?”, ha chiesto un riccioluto spettatore in prima fila. “No, sta all’allievo comprendere le proprie necessità, e trovare un mentore che lo ispiri. Al mentore sta il saper tirar fuori il meglio dall’allievo”, rispondeva Perrone, impeccabile nel suo completo in doppio petto (per una volta privo di scarpe classiche, ma in sneakers). È una questione di istinti, di comunione di intenti, di empatia: non si chiede di poter essere instradati, lo si desidera e ci si impegna per esserlo. In quale altro corso di studio si ritrova così a chiare lettere, il rapporto naturale, umano, tra chi può insegnare e chi può apprendere?

Orgoglio e umiltà sono al tempo stesso nemici giurati e compagni inseparabili. Serve l’uno per fronteggiare la scarsa conoscenza del nostro settore e combattere perché si divulghi al meglio; serve l’altra per riconoscere quanto prezioso sia ispirarsi a colleghi (perché sulla carta lo sono) che hanno già conseguito successo e soddisfazione, e a loro volta hanno l’umiltà per trasmetterla a chiunque dimostri di esserne meritevole. Perché come ha detto Monica Berg, un allievo “deve anche essere disposto a dare, non solo ad apprendere”. È uno dei passi fondamentali ed epocali che il movimento bar italiano dovrebbe compiere: senza una adeguata formazione, che passa per figure di riferimento e frequentazione di eventi come quello di Atene, non si crescerà mai come osti, e ancora meno si riuscirà a scardinare la percezione che il pubblico (che ci si ricordi, è quello che alla fine permette di pagare le bollette) ha di baristi e personale di sala.

Eventi di settore come l’Athens Bar Show, in generale, sono occasioni senza prezzo per tessere tele di rapporti sociali, fare esperienza in bar di caratura mondiale (Baba au Rum, Clumsies, Line: Atene ne ha tre tra i primi cinquanta del mondo, uno più strepitoso dell’altro) e consolidare le proprie nozioni, se si impara dove attingere. E cosa ne sapete che la vostra prossima ricetta troverà la quadratura alle quattro del mattino, quando gomito (altino di certo) a gomito con un bartender che parla un’altra lingua, vi illuminerete a discutere dei vostri tentativi. O magari, da consumatori, vi capiterà di percepire l’elettricità e la complicità di due lavoratori che senza parlare si muovono come ingranaggi a incastro, allenati in anni di consigli e lezioni silenziose. La professionalità al bar, e di conseguenza tutto ciò che serve per ottenerla e custodirla, è una realtà che va coltivata e raccontata, perché anche chi al bar non lavora, possa affrontarla. Formarsi, crederci, formare, informare. Come ha detto, ancora, Monica Berg: “Competenza e ignoranza sono altrettanto dispendiose. Scegliete voi da che lato stare”.

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?