Città vuota

A chiederlo ai milanesi veri, soprattutto quelli con il tagliando dell’età che comincia a mostrare qualche timbro in più, quella estiva è la versione di Milano più bella possibile. La mini-metropoli galoppante che almeno per un mese rallenta e quasi riposa, abbassa i toni, si prende cura di se stessa; il traffico praticamente scompare, i suoni si fanno più nitidi, le velocità si dimezzano. E soprattutto, la città si svuota: non uscite nelle ore più calde, ma doveste trovarvi in giro al primo pomeriggio, vi trovereste con la possibilità di godere delle strade alberate e degli angoli fermi nel tempo, quasi in completa solitudine. Se invece vi ritrovaste ormai all’ultima spiaggia, stritolati tra ferie che non arrivano mai e ricerca di un barlume di presenza umana, seguite le luci accese alla fine della strada, dove di sicuro prima o poi troverete una piazza.

E provate a farlo un salto in piazza, una di queste sere, magari le ultime prima di andare altrove. Le agorà hanno forza attrattiva da quando l’uomo esiste, e ci sarà un motivo: luoghi di umanità centrifuga, ritrovo naturale per chi si è perso o in qualche modo vuole perdersi. Ci si facevano i giochi, le esecuzioni o il mercato, come quello che ancora riecheggia di fronte al Palazzo Giureconsulti, da pochissimo riaperto: si può ancora trovare la pietra dei falliti, dove i negozianti oberati di debiti venivano derisi in pubblico. Nulla di troppo diverso da quello che può capitare dopo il quinto giro di amari, quindi bevete responsabilmente. Più probabilmente ci troverete una chiesa, come in Piazza San Fedele, dove Alessandro Manzoni finì con il cadere e battere la testa, prima di dare l’ultimo saluto (e magari anche lui barcollava per il vino, che ne sappiamo). Quello che vi serve però è presto detto: un bar.

Il bar di piazza è un angolo romantico in un cerchio già di per sé dalle tinte di altri tempi: è l’ultima radice che ricorda da dove veniamo, una sorta di memoria di paese, dove il quartiere si aggrega e vive attorno. E non stiamo parlando del bar pettinato, va da sé, ma di quell’indirizzo di ritrovo quasi atavico, quello che diventa parte integrante del quotidiano, quello del “ci vediamo là tra cinque minuti” e dove quasi tutti si chiamano per nome. In una marea di locali che aprono pensando prima all’ufficio stampa che a pulire per bene i bicchieri, questi residui di convivialità senza paillette sono un balsamo di semplicità che non ha prezzo.

A ciascuna piazza il proprio ritmo e la propria realtà, peraltro: magari lo sapevano i Borromeo, che addirittura nel 1420 vennero a stabilirsi nel crocevia che oggi porta il loro nome, nel palazzo all’interno del quale si può scovare un gioiello (e il caso di dire per ovvi motivi) da lasciare con gli occhi sgranati. Di sicuro lo sa Alessio Guadagnuolo, che proprio di fronte ha aperto una chicca da godere a ogni ora del giorno. È la piazza altisonante, quella delle cinque vie alle spalle del Duomo, che sulla pedana in legno all’esterno del Flow, o dentro tra poltrone e neon, viene a distendersi dopo una giornata di tran tran.

La piazza grezza e palpitante è in zona Nolo, oramai definitivamente decollata come meta di nuova gentrificazione urbana (con annessa impennata dei prezzi degli immobili: bei tempi quando gli hipster erano squattrinati). Piazza Morbegno, sulla quale già nel 2016, in tempi meno sospetti, i ragazzi del Ghe Pensi Mi avevano deciso di puntare tutte le proprie fiches. Con enormi frutti peraltro, perché in un autentico deserto come può essere la zona nordovest di Milano in questo periodo, ogni sera il Ghe scoppia di anime che cercano riparo dal caldo, dalla sete e dalle ultime mail.

Di piazza non proprio, di strada senz’altro è la strepitosa caciara che da più di dieci anni scorre dal banco di Lacerba, fino alla fine del marciapiede. Via Orti ci ha dato e tolto tantissimo sul piano personale, e le notti trascorse ad ascoltare il maestro Agostino Galli, rannicchiati sul bordo di quell’universo futurista, universitario, genuino, rimarranno un punto fermo della nostra crescita a Milano. Uno dei più imperdibili epicentri di energia che la città potrebbe offrire: intellettuale, universitario, economico, complesso, alla mano. Un ricettacolo di esperienze di vita tutte sparpagliate tra il bancone, la porta con accendino elastico e la strada intera.

A ridosso di Piazza XXIV Maggio, con alle spalle quei Navigli che si trasformano in giungla purtroppo facilmente, sopravvive dal 1999 un altro gioiello vecchia maniera: il CapeTown Cafè. Ruvido, autentico, sempreverde, con gli interni da pub inglese e un ambiente da irriducibili, che trasuda storie di fine giornata e ha in caldo storie di inizio nottata. E se non vi lasciate ipnotizzare dai bicchieri che scivolano sull’incavo del bancone, non sapete cosa vi state perdendo.

Milano in agosto è come una prateria del West dei cowboy e dei saloon: gente rada, rumori di fondo, trentacinque gradi e vi è finito da bere. Al posto della locanda al prossimo incrocio, provate a passare a uno di questi indirizzi, o da qualsiasi altra insegna che miracolosamente troverete aperta. È il bar che torna a essere ristoro quando sembra non essercene, ed bene capirlo: se doveste trovare chiuso anche qui, allora davvero vuol dire che avete bisogno di una vacanza.

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?