Capri Revolution

Esiste un ritaglio di giornale ingiallito, incorniciato e affisso sulla parete bianca di una villa freschissima, tra le arterie sonnacchiose che si arrampicano sul versante sud-est di Capri. È soltanto una tra le migliaia di testimonianze che il professore Carlo de Pascale, ha raccolto e catalogato per ricostruire quasi mezzo secolo trascorso rimbalzando tra l’Isola Azzurra, la sua Napoli e il resto del mondo. Primario emerito d’ospedale, docente universitario, pioniere della ricerca medica nella nefrologia, ha da qualche anno scollinato oltre gli ottanta e oggi si dedica con entusiasmo fanciullesco a qualsiasi declinazione di cultura, come ha d’altronde fatto per tutta la sua vita. Capri è uno dei suoi capitoli preferiti.

Fu definitivamente rapito dalla perla del Golfo all’inizio degli anni Ottanta, quando scovò questa che era frazione di una villa da trentasei stanze, oggi riallocata per ospitare sei appartamenti con inquilini da ogni curva del globo. Un portagioie dalle volte alte e una ventilazione da paradiso, con vista su Marina Piccola e scaffali che quasi si flettono sotto il peso romantico dei ricordi; il Professore viene qui per buona parte di ogni anno, ritrova emozioni vecchie di decenni e cerchie di frequentazioni, cammina molto, va al mare quando decide. Sono le regole di un luogo che nei secoli è cresciuto nel mito della convivialità:  la nullafacenza, che pure qui è quasi indotta dalla brezza del pomeriggio, è però in realtà intesa nel senso più greco possibile, lo stesso che ha avvolto Capri fin dai primi tempi di una gloria mai svanita.

I raccoglitori del Professore sono un ribollire di testimonianze, pettegolezzi, storie, ricordi, polemiche, rivelazioni. Sono i vasi di Pandora di quelli che lui stesso, mentre alza le spalle, descrive rassegnato e sognante come “altri tempi”. I collage più recenti raccontano del jet set che qui arriva sulle delfiniere di yacht inarrivabili, giusto il tempo di una sgranchita per le viottole del centro o la presenza a un evento (Jennifer Lopez e Ben Affleck sono gli ultimi ad aver tappezzato i titoli degli ultimi mesi, scovati a passeggiare per shopping sull’isola); quelli più datati parlano invece addirittura dei lavori archeologici e ingegneristici che per tutto il Novecento hanno contribuito a rendere Capri il diamante che è. E si va indietro di parecchio, seguendo però un filo invisibile che parla sempre lo stesso dialetto: quello della cultura, della bellezza e dell’ospitalità.

Si arriva fino a Cesare Ottaviano, poi divenuto Augusto, che attraccò a Capri nel 29 a.C., innamorandosene in ben poco tempo: pare avesse visto rifiorire una quercia secca al suo arrivo, e lo interpretò come segno divino. Elesse quindi l’isola come sua dimora di riposo, attratto probabilmente dalla tradizione greca qui già presente: lui che aveva studiato e si era formato con i contributi ellenici di Apollodoro di Pergamo, Atenadoro di Tarso e il filosofo Areo di Alessandria, per ottenere Capri cedette in cambio Ischia a Napoli, cui Καπρέαι apparteneva già da tre secoli almeno. Foraggiatore di sapere e virtù, oste eccellente per delegati e ospiti da tutto l’Impero, l’immenso Augusto fece costruire la sua Apragòpolis, la cittadella del far nulla, sede dei suoi ricevimenti più sontuosi. Più che inattività, era l’ozio ad essersi inerpicato sulle scogliere e nella genetica dell’isola Azzurra, inteso come otium contrapposto al negotium. Fino al pomeriggio ci si dedicava al lavoro, dopo pranzo era tempo di investire energie, sì, ma in attività costruttive per il corpo e per lo spirito: Capri fu fin dall’epoca imperiale un centro pulsante di vita intellettuale, politica, a tratti godereccia, al limite dell’eccessivo, sempre avanti di cent’anni.

A Ottaviano succedette Tiberio, figlio della seconda moglie Livia Drusilla: arrivò a Capri nel 27 d.C. e dimorò nella strepitosa Villa Jovis, il punto più alto dell’isola dal quale pare fosse solito gettare gli ospiti scomodi (il Salto di Tiberio, oggi aperto per meravigliose visite ed eventi). Ci rimase per dieci anni, fino alla tormentata morte (che lo colse però a Miseno, durante un viaggio diplomatico). Fu a Capri, nella Grotta di Matermania, che venne raggiunto da un inviato della Giudea, arrivato una notte senza troppa luna ad avvisarlo che “un maniaco” che diceva di essere il Messia era stato crocifisso durante le fasi conclusive della rivolta locale. In quella stessa grotta, quasi due millenni dopo, il Conte Jacques Fersen era solito tenere rappresentazioni e simposi, spessissimo privi di qualsiasi pudore, prima di trasferirsi a fumare oppio nella sua Villa Lysis (a sua volta visitabile e bellissima, vicina all’essere acquistata dalla famiglia Agnelli, oggi proprietà del Comune di Capri). Nel mezzo e dopo, la costruzione e il consolidamento di un luogo assurto a icona del gusto, dell’esclusività, dell’accoglienza più ricercata e celebre.

Sono settantasei i raccoglitori in formato A3 che il Professore ha già messo in ordine, ciascuno contenente almeno sessanta tra stampe, citazioni e riferimenti: ci si dedicherebbe ancora di più se potesse, ma ogni anno che torna a Capri, la vita sociale, come nella tradizione locale, è clamorosamente densa. C’è qualcosa da fare praticamente ogni giorno, che sia la presentazione di un libro, un concerto all’aperto, una cena da amici di lunghissima data, un torneo di carte: lo conoscono e lo rispettano tutti e ovunque sull’isola, soprattutto perché esponente di una generazione come ormai non se ne trovano più, di quelli che tolgono il cappello per salutare una signora, comprano tre giornali ogni mattina e per fare cento metri impiegano venti minuti, con tutte le persone che si fermano a salutare. Non si fatica per nulla a immaginarselo, ad esempio, nella Capri di metà Ottocento, quando a fare da centrifuga per idee e ideali era, inutile dirlo, un bar.

E che bar: lo Zum Kater Hiddigeigei, il gatto dal nome strano, così chiamato perché ispirato a un verso del poema Il Trombettista di Sakkingen, composto nel 1853 a Capri da Victor von Scheffel. Il poeta aveva firmato le rime per dedicarle a Manfredi Pagano, all’epoca oste dell’omonimo hotel, il primo e più importante di Capri, oggi La Palma, acquisito da un gruppo tedesco e in ristrutturazione fino al 2022. Il nome del bar fu naturale calamita per i tedeschi, da sempre popolo affezionatissimo a Capri, che qui trovavano primizie del loro paese come salsicce e soprattutto birra alla giusta temperatura (raffreddare e congelare, all’epoca, costava un polmone); lo Zum Kater fu però tempio di convivialità per chiunque avesse bisogno di bere, mangiare, leggere, fumare, discutere, a prescindere dalla bandiera di provenienza. Fu ad esempio il vero teatro di prova per la rivoluzione russa del 1917, teorizzata ai tavoli di quella che oggi è via Vittorio Emanuele da Maksim Gorkij, che spesso finiva per pagare il conto di fine giornata a tutti gli avventori e che qui ospitò Lenin in una delle sue estati di preparazione.

 

(la foto in basso è di Giorgio Sommer, straordinario occhio di Napoli e dei suoi dintorni tra fine ‘800 e inizio ‘900)

Alla cassa, e per questo sul trono, del bar, sedeva (e frequentemente s’addromentava) Donna Lucia Morgano, moglie di Don Giuseppe, i cui discendenti sono oggi proprietari dell’hotel Quisisana (istituzione caprese a sei stelle, in origine villa privata dei Morgano poi convertita durante la seconda Guerra Mondiale in casa di cura, da cui il nome, è quindi in albergo). Oste superlativa, rappresentazione perfetta di quello che un professionista del bar dovrebbe essere: parlava poco, sapeva tutto, aiutava sempre. Era lei a mandare vestiti puliti e cibarie agli stranieri troppo ubriachi per fare da sé, e fu sempre lei a tenere sotto controllo le possibili difficoltà cui potevano andare incontro i vari dandies, bohemienne e anime alternative che affollarono Capri a cavallo tra i due secoli scorsi; quando il suddetto Fersen si vide accusato per la morte di un operaio nella sua villa, o quando il pittore tedesco Christian Wilhelm Allers finì nelle liste della polizia per alcune feste omosessuali da lui tenute (Miezo Culillo era il nome del giovinotto suo compagno, i tempi del peloso politically correct erano felicemente lontani), Donna Lucia mandò loro a dire di allontanarsi, nascondersi, travestirsi.

Fu il prototipo del barista a tutto tondo, che è imprenditore e confidente, psicologo e chimico. E rimase là a sorvegliare l’umanità che nel frattempo andava crescendo e bombardando: lo Zum fu il ritrovo per le truppe inglesi in congedo durante la prima guerra mondiale, poi tornò ad essere il ricettacolo di visionari e maledetti approdati a Capri da ogni dove. Scrittori, pensatori, pittori, artisti: ospitò tra le altre cose un’esposizione di Fortunato Depero, il futurista che legò poi la sua fama all’immortale design della bottiglietta del Campari Soda. Non esisteva una sola persona d’arte o pensiero che approdasse a Capri senza passare allo Zum, che proponeva da bere e mangiare, ma anche da scrivere, da accendere, da vestire, da affrancare. Un emporio di sapere e di filosofia, smercio d’opinioni, rivendita di intelletto. Finì quando Donna Lucia rimase sola: nel 1923 venne a mancare Don Giuseppe, e lei preferì ritirarsi a vita privata, che nel 1943 abbandonò per sempre insieme alle migliaia di storie custodite dal retro del suo bancone.

Il ritaglio affisso nella villa del Professore racconta in realtà dell’eredità naturale dello Zum, raccolta e fatta detonare con fragore da un pioniere che creò uno dei luoghi più riconosciuti e visitati della storia, partendo dal nulla. Raffaele Vuotto aveva trent’anni quando nel 1938 sfidò le restrizioni folli del fascismo e vinse, dando luce verde al culto del tempo speso ai tavolini più famosi di sempre. All’ombra del campanile di Capri avviò per la prima volta il suo lucidissimo e nuovo carretto dei gelati: che ci si creda o meno, la Piazzetta di Capri nacque così. Fu la fiammella che fece (ri)esplodere la polveriera di intellettuali, attori, artisti, reali, stilisti e menti brillanti, tutti frequentatori, almeno una volta, del salotto isolano per antonomasia, dove vedere e farsi vedere. Al bar di Vuotto si affiancarono il Tiberio, ex ossario della chiesa adiacente e teatro delle famiglie bene, e il Caso, storico ritrovo per la comunità omosessuale che in Capri ha da sempre una seconda (quando non eletta) casa.

I vimini delle sedute sono per una sera piedistallo per chiunque, trasudano le conversazioni di Sartre e i patemi di Jackie Onassis, conservano le idee di Eduardo e i disegni di Valentino; la storia e le storie di ciascuno dei quattro bar fratelli varrebbe per un’enciclopedia, perché è sotto queste insegne che camerieri in calzoni prima e in livrea poi, hanno servito aperitivi senza fronzoli a personalità senza limiti. Eppure oggi è allarmante il rischio dei tempi moderni e digitali. Fendere la Piazzetta oggi vuol dire infatti abbeverarsi a una visione troppo spesso a tinte grigie, fatta di teste chine su schermi minuscoli o braccia allungate per selfie da rivedere una volta sola. I cuscini su cui sono seduti Zsa Zsa Gabor e Vittorio de Sica, Pier Paolo Pasolini e il Pupetto Sirignano (il cui Memorie di un uomo inutile è un’autentica gemma sulle leggende capresi), un giovanissimo Frank Sinatra in licenza militare e Elsa Morante, sono dati in prepotente prestito a chi probabilmente non ha neanche idea di cosa questi (e altri cento) nomi vogliano dire. “Altri tempi”, dice il Professore. Con lui resiste però la lanterna della cultura, di chi racconta e cura, ricorda e ospita sull’isola che da millenni accoglie l’umanità più affascinante: accoglienza, in fondo, è qualsiasi cosa significhi trasmettere un po’ di sé agli ospiti, e da questi trarre un po’ di loro. Come fa Capri, o come fa il Professore con uno, o migliaia, di ritagli di giornale.

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?