Poteva andare peggio

Pensavate di esservi ormai messi in salvo dalla febbre della miscelazione molecolare, dai drink con colori strappa-pupille e tecniche di laboratorio applicate al bere? Bentrovati, dunque: su Netflix è da qualche settimana disponibile Drink Masters, un talent show dedicato ai bartender (ristretto al Nord America), che mette in palio la bellezza di centomila bruscolini, utili al vincitore, si suppone, per avviare una propria attività. È il primo programma-competizione dedicato al bar: contenti? Eh…

Partiamo dal negativo, come noi italiani siamo storicamente bravissimi a fare: il programma di per sé è davvero poca cosa. Strutturalmente, Drink Masters è la solita tiritera di sfide a tempo, “pressure test”, intervistine, eliminazioni; un format che Masterchef (e in realtà prima ancora Hell’s Kitchen, con un Gordon Ramsay ancora privo di rughe ma già al top delle bestemmie) ha ampiamente sdoganato e praticamente mai aggiornato. Il pathos è assente, non succede nulla di straordinario; il massimo della suspense si vive con un drink che all’interno ha del ghiaccio secco, potenzialmente mortale se ingerito, che i giudici non assaggiano. Il resto è una sequela di puntate tutte uguali, fino alla premiazione finale, a sua volta piuttosto piatta (non un grido, non una folla esultante, non un coriandolo, cose delle quali invece i talent show nostrani abbondano, e almeno un minimo possono anche andare bene).

I presupposti peraltro sarebbero anche di un certo spessore: accanto al presentatore Tone Bell (che curiosamente ha esordito sul piccolo schermo nel 2012 nei panni di un bartender, nella seconda stagione della serie Whitney), in giuria siedono due nomi che proprio sconosciuti non sono. Julie Reiner è universalmente riconosciuta come una delle pioniere dell’ospitalità mondiale, lei che dalla San Francisco in cui saggiò l’universo bar per la prima volta (in un locale drag) arrivò a New York a fine anni Novanta, spaccando letteralmente il mercato; protetta del leggendario Dale de Groff (che appare come giudice ospite in una puntata), fu tra le primissime a spingere per i pre-batch, per l’impiego di altre donne al bancone, per l’utilizzo di prodotti freschi e di preparazioni espresse. Reiner ha aperto bar divenuti icona, come la Flatiron Lounge e il Clover Club, facendo da mentore per altre stelle del panorama mondiale come Audrey Saunders (titolare del oggi defunto Pegu Club, cui si deve la riscoperta di prodotti all’epoca dimenticati, vedi rye whiskey e vermouth) e Ivy Mix, con cui ha aperto il Leyenda di Brooklyn e che tutt’oggi è leader del fenomeno SpeedRack, la prima competizione al mondo tutta al femminile, gestita insieme a Lynnette Marrero.

Con lei nei panni del giurato c’è il canadese Frankie Solarik, a sua volta punto di riferimento della miscelazione molecolare nel mondo, autore di una pietra miliare sull’argomento come The Bar Chef: A Modern Approach to Cocktails. Dal 2008 è proprietario del BarChef di Toronto, locale simbolo della vita notturna locale (e noto praticamente ovunque), specialmente grazie appunto all’approccio che lui stesso definisce modernista, verso un bere che unisce spettacolo e qualità; una miscelazione che si potrebbe descrivere, stiracchiandola, come molecolare gourmet, ma siamo al limite, perché la sostanza è ben più considerata rispetto all’estetica. Solarik detiene inoltre la proprietà di un’azienda di catering per eventi e di cocktail ready to drink, sotto lo stesso nome; e nel 2023 si attende l’apertura del suo secondo indirizzo, che avrà come tema la Parigi di fine Ottocento (null’altro è ancora dato sapere).

Agli squillanti curriculum dei giudici, tuttavia, non corrisponde un prodotto altrettanto valido, almeno televisivamente parlando, e a maggior ragione se gli spettatori sono parte del settore. Le performance dei bartender in gara sembrano oggettivamente lontane dalla quotidianità di un professionista del bancone: ognuna delle prove si concentra sulla creazione di un drink signature, che soddisfi i criteri di gusto, aspetto e creatività secondo i quali i giudici esprimeranno il proprio parere. Nel complesso potrebbe anche avere senso, ma pressoché nulla è l’attenzione riservata al lavoro al bar vero e proprio, fatto principalmente di classici da eseguire alla perfezione (si vede un Adonis, lacrimuccia), rapporto con l’ospite, organizzazione, pulizia: le modalità di lavoro e di servizio, con disordine vario ed enormi quantità di liquido che fuoriesce da mixing glass e calici, equivarrebbero tranquillamente a una penalità piuttosto importante, se si verificassero durante le cocktail competition più blasonate. E a prescindere da contesti di gara, di certo non lascerebbero un’impressione troppo positiva a un ospite che passa al bar in un qualsiasi martedì sera.

Chiarissima, inoltre, è la preponderanza di un’impostazione più da cucina che da bar, se si consente il non-paragone: la figura del bartender viene associata a quella del cuoco, con sessioni di preparazione infinite, impiego profondo di frutta, radici, cibi, che vengono trattati con tecniche rarissimamente disponibili nella vita reale, dall’azoto liquido al distillatore istantaneo. Il barista passa per quello che non è, una sorta di scienziato pazzo che sbuca tra nuvole di fumo e occhiali protettivi; francamente non veritiero, e un colpo difficile da incassare per i professionisti italiani, che già fanno una fatica di Ercole per svincolare l’immagine del bar da quella del luogo di perdizione per eccellenza. Un discreto polverone, poi, si è già alzato sulla scarsa aderenza di alcune ricette classiche viste in trasmissione, su tutte un New York Sour che viene realizzato con succo d’arancia; critica che può starci, la comunità miscelatrice nostrana è sempre prontissima ad alzare il ditino e fare la lezione, ma sarebbe interessante vedere quanti di quelli che si sono inalberati conoscono la differenza tra New York Sour e New Yorker. Si divaga, in ogni caso.

Dunque, il nocciolo della questione: non è questo il bar che farebbe bene comunicare. Tutto l’uragano di affumicatori, abbattiori, gelificazioni che si vede in Drink Masters è roba che in minuscola parte può interessare il consumatore medio; se al centro dell’utenza del bar deve essere l’esperienza in toto, non si può prescindere dal divulgare l’importanza dell’intero contesto, e limitarsi esclusivamente a un drink che sia prima di tutto bello, poi chissà se anche buono. Ci si fa un cuore così (ovunque nel mondo) a sottolineare come il cocktail sia in realtà l’ultimo dei dettagli da assaporare in un bar, che prima propone atmosfera, sorrisi, persone; spingere così tanto su estremismi tecnici (e tecnologici) e sull’estetica, appare come uno scivolone non da poco. Potenzialmente, peraltro, andando a danneggiare sia bartender che bevitori: i primi perché ben consapevoli di quanto il programma sia molto poco fedele alla realtà del lavoro al bar (sarebbe stato ben meglio un documentario di alta qualità su cosa succede prima e dopo un servizio, tra preparazioni, notte fonda, potenziali eccessi, psicologie fragili e così via), i secondi perché magari stufi, dopo una certa, di vedere sempre le stesse cose o quasi.

Ciononostante, Drink Masters “ha fatto anche cose buone”. Innanzitutto, già solo aver portato un colosso della comunicazione a produrre una dozzina di puntate che parlino di bar non è cosa da poco; pur se flebile, è sintomo dell’interesse ancora crescente che circonda il mondo del bere miscelato, e non andrebbe trascurato. Alla peggio, poi, Drink Masters potrebbe rappresentare un gigantesco specchio per le allodole, e starebbe al mondo bar farsi trovare pronto qualora dovesse davvero vedersi inondato di nuovi interessati. Potrà infatti essere un prodotto di qualità mediocre, ma è indubbio che il rimbalzo mediatico di Netflix sia tangibile (soprattutto negli Stati Uniti), e possa portare quanto meno a una maggiore affluenza.

In poche parole: poteva andare meglio? Decisamente. Ma sarebbe potuto essere anche molto peggio: sarebbe potuto non esistere affatto un programma che diriga l’attenzione verso la miscelazione, che piaccia o meno, e al netto delle differenze di interesse che passano tra le diverse latitudini del mondo (quello che colpisce qui non colpisce in USA, e viceversa). Rimarrà da capire quali aggiustamenti potrebbero essere applicati in una ipotetica seconda stagione, che non sarebbe improbabile (Drink Masters ha letteralmente fatto il botto in America Latina, per dirne una), per cercare di rendere il programma più utile a tutto il movimento. Ma al di là di questioni tecniche, sta a noi adesso: potenzialmente, si tratta di un volano immenso, che potrebbe smuovere a sufficienza la dimensione dell’ospitalità liquida. Fosse anche per un solo ospite che da oltreoceano si trova in Italia ed è alla ricerca di qualcosa che lo riporti a un’idea di casa, là ci sarà da giocarsela. Il vero errore sarebbe non sfruttare questo periodo storico, che vede il bar lentamente ma costantemente, scolpire sempre di più la propria identità e il proprio valore, certificati anche da casi come Drink Masters. E in ogni caso, ripassatevi il New Yorker.

 

 

Tutte le immagini sono di proprietà di Netflix.

 

Leggi anche...

baround

Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

baround

Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

baround

Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

baround

Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

baround

Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

baround

Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?