Giacche bianche sul Golfo di Napoli

A un certo punto avevamo detto anche basta. Il periodo di clausura imposto dalla pandemia è stato un fiorire di dirette social, appuntamenti in chat, degustazioni online.

L’ospitalità, martoriata oltre ogni limite, ha cercato di tenersi viva con una sequela (a un certo punto stucchevole) di tutorial e racconti da ascoltare a casa. Molti bartender, anche rinomati, si sono prestati e noi abbiamo cercato di fare il possibile. Alex Frezza invece se n’è, almeno apparentemente, disinteressato.

Gli metteva tristezza bere da solo, o comunque a casa, da quanto ha raccontato in un’intervista che (per fortuna) è stata pubblicata senza censurarne il copioso e in qualche modo poetico turpiloquio. Aveva fatto in tempo a trasformare L’Antiquarioil suo bar di Napoli, tra i più rinomati d’Italia e non solo, in una cantina cubana durante lo spiraglio della scorsa estate, prima di dover fronteggiare la seconda chiusura forzata e rimettersi a contare i giorni. In ogni caso, mai con le mani in mano.

Nel panico troppo spesso silenzioso che ha serpeggiato nella community dei bartender, Frezza è stato un bel faro di comunicazione ironica, sfacciata, nichilista e vera. Quando c’era da incoraggiare lo ha fatto, quando c’era da guardare in faccia il buio non si è tirato indietro: il post Facebook, anche quello zeppo di insulti per i poveri iscritti al gruppo da lui fondato almeno dieci anni fa e ormai diventato icona del movimento, è stato appuntamento fisso del sabato. E non stiamo esagerando quando diciamo che in qualche modo è stato il metronomo con cui la lontananza dai bar è stata scandita fino alla fioca luce riapparsa con le riaperture.

 

Ha tirato fuori storie Instagram geniali e lanciato messaggi di qualità, ha confessato debolezze e comunque guardato oltre. È intervenuto, sì, ma lontano dai fai da te o dalle autocelebrazioni fini a se stesse: è stato giudice per le fasi finali della World Class di Diageo, tutor per l’edizione stravolta della Campari Bartender Competition e da qualche parte trovate ancora un suo parere sull’ingegneria del menu e dell’apertura di un locale (spoiler: dice cose come rendita per metro quadro, concetto che da solo screma quelli bravi da quelli decisamente più bravi).

Durissimo contro le manie da iper-innovazione, quasi romantico quando parla del suo bancone e della sua visione del lavoro che lo ha portato, oggi che è ancora dalla parte giusta dei quaranta, a essere con merito riconosciuto tra i migliori d’Europa, se non del mondo (noi, seduti una sera al suo bancone, lo avevamo origliato mentre spronava il suo team a far “capire cos’è un cocktail vero” a un cliente non abituale. La dice lunga sull’indole).

Sette mesi di chiusura complessiva lo hanno visto a capo di un movimento di rappresentanza, al fianco di un online store, o su traghetti a fare avanti e indietro dalla sua Procida: praticamente ubiquo. Addirittura è tornato in palestra. Poi però il momento è arrivato. L’Antiquario ha riaperto appena ha potuto, Frezza ha ripreso volontariamente con qualche giorno di ritardo per obbedire alla numerologia: neanche il tempo di tornare ad aprire la porta, con quel buonasera appena annacquato da una riconoscibilissima zeppola e l’accento orgogliosamente partenopeo (peraltro serenamente intercambiabile con un perfetto inglese, omaggio genealogico), che l’ubiquità è tornata prepotente. E meno male.

L’Antiquario, che rimane regolarmente aperto, da fine giugno è infatti la firma dietro il pop-up bar sulla terrazza del Grand Hotel Parker’s di Napoli, l’albergo probabilmente più rappresentativo della città, da centocinquant’anni ombelico di vita mondana alla vecchia maniera: quella del caffè dei filosofi, di notti trascorse da intellettuali a fumare e scambiare opinioni senza aver bisogno di avere ragione. Epoche, inutile dirlo, di ospitalità da giacche bianche, le stesse che Alex ha stirato e curato sin dall’apertura de L’Antiquario, locale strepitosamente identitario che però lui stesso nega “di aver cucito su me stesso. Piuttosto, è un’idea che abbiamo coltivato dopo aver visto gli spazi, ed è riuscita piuttosto bene”. Parla al plurale, coinvolgendo il suo socio storico Francesco Cappuccio, con cui è titolare anche di una società di catering e eventi.

Il Parker’s Pop Up ci è sembrato un minuscolo cerchio chiuso intorno, e soprattutto grazie, all’idea di servizio che Frezza ha fatto sua: garbo rispettoso ma non ossequioso, modi eleganti ma mai eccessivi, in definitiva qualità alle stelle e competenza inverosimile. Quando siamo volati (letteralmente) a Napoli per l’evento inaugurale, che cadeva in concomitanza con la Cocktail Week di Diageo in Campania, abbiamo ritrovato il giovanotto (metro e novanta abbondante e barba da boscaiolo) in una forma smagliante, ai limiti dell’emozione, che ha emozionato un po’ anche noi. Sembrava non avesse aspettato altro per tutta la vita, lui che comunque nei cinque stelle ci ha lavorato eccome: stavolta vestito di blu, leggerissimo nel miscelare alla sua maniera, i suoi cocktail. Classici, cioè, mai rivisitati del tutto, semmai semplicemente conditi con una goccia di cultura e contemporaneità.

L’intero menu del pop-up bar, che andrà avanti fino a fine estate, sarà infatti una lista di drink immortali appena twistati, ai quali andranno ad aggiungersi alcune proposte storiche de L’Antiquario (il Cristo Velato, fidatevi), e ovviamente, champagne (“pensavo non esistessero persone a cui non piace lo champagne, ma negli anni qualcuno è capitato”, è un’altra delle perle snocciolate da Frezza durante i lockdown). Addirittura rispolverati anche i cocktail sorbèe, con il gelato, un concetto di eleganza che quasi fa allergia. È quello che manca spessissimo nelle città cosmopolite d’Italia, delle quali Napoli è portabandiera per eccellenza: un bar d’albergo di lusso, approcciabile ma non per tutti. Come ce n’erano quando i problemi erano tanti e forse meno chiari, e per questo si riusciva ad apprezzare la bellezza, tutta.

Siamo rimasti in terrazza, con il Golfo di Napoli e il Vesuvio a fare come da quinte per questo nuovo, strepitoso palcoscenico di miscelazione, fino a tardi, a parlare poco e a sognare molto di più. Magari lo aveva fatto anche Alex prima di noi, quando si è ritrovato a dover resistere alle spallate di un momento storico assurdo anche solo da pensare.  Esisteva una sola dimensione in cui lo avremmo immaginato al di fuori de L’Antiquario: e da oggi è lì. 

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Piutost che nient, l’è mej un toast

Non si possono lasciare soli un attimo, che ti scatenano una burrasca per un toast a mezzi e due euro da pagare per il servizio di divisione. “Che poi non è per i due euro eh”; sì invece, è per i due euro. Come è stato per dieci centesimi in più da pagare per un espresso al banco, o per il tot da corrispondere per il taglio della torta che ci si porta da casa, o il diritto di tappo qualora fosse mai capitato loro di usufruire del leggendario BYO (bring your own, molto in voga nei paesi anglosassoni, andare al ristorante con la propria bottiglia di vino e pagare una cifra prestabilita perché gli addetti stappino, servano, forniscano i calici, li lavino e così via). O quanto meno, è prima di tutto per la questione economica, che per il consumatore medio è stretta con il doppio nodo a una mancanza di aderenza alla realtà, quando si parla di ristorazione.

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Odio l’estate

Non è una questione di temperature, folla al mare, spostamenti di ore: quella è roba per i veri squali dell’informazione, quelli che scrivono “spiagge prese d’assalto” e “non uscite nelle ore più calde”. Non è neanche per i terrificanti cocktail estivi che ci vediamo propinare, come quello in foto d’apertura. Io la detesto perché è come se con l’avvicinarsi del pieno della bella stagione, le rughe della vita quotidiana dell’ospitalità diventassero più profonde ed evidenti. L’estate diventa una scusante per qualsiasi problema non risolto, di comportamento approssimativo, di prestazione insufficiente: tanto se ne riparla a settembre, o comunque sai il caldo, insomma siamo quasi in ferie. E figuriamoci se qui si vuole mettere in dubbio le difficoltà che sono ormai sempre più pressanti, per chi decide di mettersi in gioco nel settore dell’accoglienza: ma riconoscerle e affrontarle in modo costruttivo è un conto, sfruttarle come motivazione per non tenere certi livelli è un altro.

Capita molto spesso anche con le nuove aperture: il periodo di rodaggio, abbiamo aperto da poco e ci stiamo ancora assestando, stiamo ancora cercando fornitori (poco diverso da settembre, il caldo, le ferie). È tutto comprensibile, ma alla fine l’ospite paga un prezzo che di questi inconvenienti non tiene conto, non ci sono riduzioni per il periodo iniziale o quello a ridosso delle vacanze. Ed è un bel pararsi il sedere, con tutto il rispetto, considerando il danno che si arreca all’intero sistema: se più locali propongono un prodotto mediocre, quei pochi (sempre meno) che invece lavorano come si deve soffriranno, paradossalmente, perché gli ospiti faranno richieste altrettanto mediocri (dato che il circondario non si preoccupa di fare qualità) o addirittura non entreranno neanche, dato che le precedenti esperienze in zona hanno lasciato a desiderare.

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Influencers

La testata britannica Drinks International, che distribuisce un bellissimo cartaceo oltre alla sterminata fonte di informazioni online, è forse la più rilevante e profonda del settore in questo momento. Per vari motivi, tra l’altro: ci si trovano spunti relativi al mercato, articoli di opinione, contenuti utili a bartender e consumatori. Insomma, un contenitore come non se ne trovano altrove, che ha come unica pecca quella di aver permesso al sottoscritto di collaborare con un paio di articoli.

Tra i vari prodotti che ogni anno Drinks International tira fuori, ci sono due classifiche che nel giro fanno sempre piuttosto rumore. Una è quella relativa ai drink più ordinati al mondo, che prende in considerazione i dati relativi ai bar inclusi nella 50 Best Bars (andare a beccare i dati di tutto il mondo sarebbe impresa durissima ma affascinante, soprattutto per le case produttrici di rimedi epatici). Lungi dall’essere una trovata di marketing, una lista del genere permette in realtà uno spaccato di mercato preziosissimo, perchè comprendere le richieste dei consumatori di una certa fascia permette di lavorare di conseguenza. Per dirne una, il Pornstar Martini (quest’anno al 32esimo posto, in foto sotto) è stato per varie stagioni nella top 5 addirittura: chi ha intercettato quelle preferenze magari adesso lavora di più con lo champagne, con i sour in generale, con i prodotti di un certo colore addirittura. Magari anche no eh, chi ha ordinato/servito un Pornstar Martini negli ultimi mesi alzi la mano. Per il secondo anno in fila, al primo posto c’è il Negroni.

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Un’altra occasione persa

D’accordo, è stata la festa della mamma. Ma nella comunità globale del bar, il 13 maggio si celebra il Word Cocktail Day: la giornata mondiale della miscelazione, per certi versi, che si fa coincidere con la data in cui, nel 1806, il Balance and Columbian Repository di Hudson, New York, pubblicò per la prima volta la definizione del termine cocktail. L’abbiamo tutti imparata a memoria, ma una volta di più di certo non ci fa ammalare: “A stimulating liquor composed of any kind of sugar, water and bitters, vulgarly called a bittered sling” (“Una bevanda alcolica stimolante, composta di qualsiasi tipo di zucchero, acqua e bitter, volgarmente detta bittered sling“).

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Il problema è un altro

Un martedì sera a caso ho lasciato il Dirty verso le dieci e mezza, riavvicinando il mio sgabello di fronte ai genitali stilizzati sul bancone. Ci avevo trascorso neanche un paio d’ore: il tempo comunque di vedere una coppia sulla cinquantina entrare chiedendo di sedere oltre le strisce di plastica che separano le due sale del locale. Sono rimasti al tavolo appena due minuti, prima di andare via: volevano, e non è uno scherzo, mangiare una pizza. Ora io non ho idea di come fossero arrivati a scegliere proprio quest’insegna per la loro Margherita (che sia chiaro è l’unica e sola pizza sacra), ma mi è sembrato un esempio lampante di uno dei più grandi mali che affligge il mondo bar italiano, in questo momento: lo si comunica malissimo, e di conseguenza è poco compreso dal consumatore finale. Che è quello che alla fine, il mondo bar lo tiene in piedi.

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Buoni propositi

Non cambia niente, ma potrebbe cambiare tutto: ci siamo risparmiati i bilanci dell’anno appena trascorso, ma di certo non possiamo esimerci dal guardare a quello che inizia adesso. È il primo lunedì del 2023, vi pareva non vi lasciassi i miei auguri per voi tutti? Anche perché si è conclusa un’annata intensissima, positiva, complicata, e allora perché non sperare un sacco di cose belle per la prossima?